Il presente focus ha l'obiettivo di analizzare quanto statuito dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 708 del 18 gennaio 2021 nell'ambito di una vertenza in materia di locazione.
Nel caso di specie, alle conduttrici era stato concesso in locazione un immobile ad uso commerciale.
Il locatore inviava loro disdetta contrattuale alla quale, tuttavia, non dava seguito, sicché le conduttrici proseguivano nel godimento dell'immobile, corrispondendo al locatore i rispettivi canoni di locazione.
Successivamente, il locatore intimava alle stesse sfratto per morosità con contestuale richiesta di ingiunzione dei canoni scaduti.
Le conduttrici si opponevano a detta azione sostenendo che il contratto si fosse risolto con disdetta trasformandosi in locazione ad uso abitativo per il periodo successivo.
Tuttavia il Tribunale di Napoli, ritenendo fondata la tesi della proroga contrattuale, pronunciava sfratto per morosità, con successiva decisione confermata dalla Corte d'Appello di Napoli.
Il Giudice del gravame, infatti, appoggiava la tesi della proroga sulla base di una serie di circostanze, ossia: la prosecuzione della detenzione ed il pagamento dei canoni da parte delle conduttrici nonché la richiesta del locatore di registrare il vecchio contratto.
Constatava inoltre, che le conduttrici risiedevano altrove, ragion per cui la locazione non aveva potuto mutare finalità divenendo abitativa.
Avverso tale ultima decisione, le conduttrici proponevano ricorso per Cassazione.
Ad avviso delle ricorrenti gli elementi da cui la Corte d'Appello aveva ricavato la proroga del contratto, individuati nel comportamento delle parti, non erano affatto indicativi della volontà di prorogare, tenuto conto della circostanza che la mera continuazione della detenzione, da un lato, ed il pagamento del prezzo dall'altro, non erano sufficienti a dimostrare la volontà di proroga.
La Corte di Cassazione specificava che il Giudice di secondo grado aveva invece correttamente considerato la richiesta al Fisco avanzata dal locatore di registrazione del contratto originario, significativa della volontà dello stesso di prorogare il contratto, nonché la circostanza che le conduttrici, che invocavano un mutamento di destinazione, invece continuavano nell'esercizio dell'attività commerciale.
Dunque, gli ermellini non hanno ritenuto sufficiente che il rapporto tra le parti fosse di fatto proseguito: sarebbe stato necessario un comportamento del locatore di segno contrario alla volontà di disdetta.
Per tali ragioni la Suprema Corte, con l'ordinanza in commento, rigettava il ricorso, statuendo che: “La rinnovazione tacita del contratto di locazione, ai sensi dell'articolo 1597 c.c., postula la continuazione della detenzione della cosa da parte del conduttore e la mancanza di una manifestazione di volontà contraria da parte del locatore, cosicché, qualora questi abbia manifestato con la disdetta la sua volontà di porre termine al rapporto, la suddetta rinnovazione non può desumersi dalla permanenza del locatario nell'immobile locato dopo la scadenza o dal fatto che il locatore abbia continuato a percepire il canone di locazione senza proporre tempestivamente azione di rilascio, occorrendo invece un suo comportamento positivo, idoneo ad evidenziare una nuova volontà contraria a quella precedentemente manifestata per la cessazione del rapporto.”
La presente rassegna ha lo scopo di analizzare quanto statuito dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 7126 del 12 marzo 2021, nell'ambito di una vertenza in materia di responsabilità sanitaria.
Nel caso di specie, il padre, quale legale rappresentante della figlia minore, agiva in giudizio nei confronti dell'Azienda U.S.L. di Teramo al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti dalla figlia a seguito di trattamenti sanitari inadeguati a cui era stata sottoposta presso la divisione di odontoiatria dell'Ospedale Civile.
Il Tribunale di Teramo rigettava la richiesta avanzata dal genitore, pertanto quest'ultimo ricorreva innanzi alla Corte d'Appello dell'Aquila la quale, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva parzialmente la domanda proposta dall'appellante.
In ragione dell'accoglimento parziale della stessa, padre e figlia, divenuta maggiorenne, proponevano ricorso in Cassazione.
La Suprema Corte ha osservato che il Giudice di secondo grado, respingendo la pretesa dell'attrice di ottenere il risarcimento del danno da invalidità temporanea per tutto il periodo in cui era stata sottoposta a cure odontoiatriche, liquidando esclusivamente il danno da inabilità temporanea per i quaranta giorni del suo ricovero ospedaliero, aveva violato il principio di diritto secondo cui la liquidazione del danno biologico deve tener conto della lesione dell'integrità psico-fisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell'invalidità temporanea e permanente.
La Corte di Cassazione ha precisato, infatti, che l'invalidità permanente è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo abbia riacquistato la sua completa validità con stabilizzazione dei postumi.
Pertanto, l'esistenza di una malattia in atto e l'esistenza di una invalidità permanente non sono tra loro compatibili: fintanto che dura la malattia, permane uno stato di invalidità temporanea anche se non vi è ancora una invalidità permanente.
Nella specie, il periodo in cui la ragazza era stata sottoposta al trattamento odontoiatrico/ortodontico finalizzato a contenere e stabilizzare i postumi riportati a seguito dell'evento dannoso, avrebbe dovuto essere preso in considerazione ai fini della liquidazione il danno da invalidità temporanea, dovendo l'incidenza dell'invalidità permanente essere valutata solo all'esito della stabilizzazione della sua condizione, determinatasi con la conclusione del trattamento in questione.
Nella valutazione di tale pregiudizio, infatti, avrebbe dovuto considerarsi sia il profilo dell'inabilità temporanea determinata dai trattamenti, per tutta la loro durata, sia il profilo delle eventuali conseguenti sofferenze morali o psicologiche patite dalla danneggiata a causa degli stessi.
Il Giudice di secondo grado, invece, specifica la Corte, non ha tenuto conto della situazione in cui la danneggiata si è trovata nel corso del periodo in cui è stata costretta a sottoporsi a tali trattamenti.
Ciò posto, la Suprema Corte, con l'ordinanza summenzionata, accogliendo il ricorso proposto, ha statuito che: “La liquidazione del danno biologico deve tener conto della lesione dell'integrità psico-fisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell'invalidità temporanea e di quella permanente. Quest'ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi, mentre, ai fini della liquidazione del danno da invalidità temporanea, laddove il danneggiato si sia dovuto sottoporre a periodi di cure, necessarie per conservare o ridurre il grado di invalidità residuato al fatto dannoso e/o impedire il suo aumento, gli va riconosciuto un danno da inabilità temporanea totale o parziale per tali periodi, inteso come privazione della capacità psico-fisica in corrispondenza di ciascun periodo e in proporzione al grado effettivo di inabilità sofferto, dovendosi tenere anche conto nella liquidazione complessiva del danno non patrimoniale delle relative sofferenze morali soggettive, eventualmente da egli patite negli indicati periodi.”
“Nel caso in cui il deposito bancario sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere, sino all'estinzione del rapporto, operazioni attive e passive, anche disgiuntamente, si realizza una solidarietà dal lato attivo dell'obbligazione che sopravvive alla morte di uno dei contitolari, sicchè il contitolare ha diritto di chiedere, anche dopo la morte dell'altro, l'adempimento dell'intero saldo del libretto di deposito a risparmio, e l'adempimento così conseguito libera la banca verso gli eredi dell'altro contitolare.”
Detto principio è stato statuito dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 7862 del 19 marzo 2021, nell'ambito di una vertenza in materia di diritto bancario.
Nel caso oggetto della presente trattazione, il Tribunale di Roma aveva rigettato la domanda con la quale le eredi avevano proposto azione di reintegrazione della loro quota di legittima nei confronti degli eredi del compagno della madre defunta e del Banco di Sardegna, presso cui la de cuius aveva un conto corrente cointestato con il compagno.
Le eredi proponevano dunque ricorso innanzi alla Corte d'Appello di Roma, successivamente rigettato in quanto la de cuius, con testamento olografo, aveva attribuito l'usufrutto generale sui beni relitti al compagno.
Le appellanti lamentavano che la banca avesse ingiustamente permesso all'altro cointestatario di prelevare l'intero importo depositato, pregiudicando il loro diritto alla quota successoria, reputandosi l'azione avanzata nei confronti della banca di natura contrattuale, per inadempimento degli obblighi scaturenti dal contratto di deposito bancario.
Il Giudice del gravame rilevava però che nelle more le appellanti avevano transatto la controversia con gli aventi causa del compagno della madre, rompendo in modo definitivo ogni possibile collegamento di responsabilità tra la banca e la parte erede del convivente, nei confronti del quale le appellanti avrebbero solamente potuto far valere la tutela dei loro diritti ereditari.
Inoltre, la domanda avanzata nei confronti della Banca doveva ritenersi prescritta in quanto in atti non si rinvenivano documenti comprovanti l'avvenuta interruzione della prescrizione.
Avverso la suddetta pronuncia le eredi proponevano ricorso in Cassazione specificando che presso il Banco di Sardegna era stato acceso un conto corrente cointestato tra la de cuius ed il compagno il quale, dopo il decesso della donna, aveva prelevato l'intera giacenza, senza che la banca si opponesse a tale comportamento.
La banca, dunque, consapevole del decesso della madre aveva permesso al compagno di porre in essere una condotta illegittima, divenendo concorrente dello stesso.
Quanto all'eccezione di prescrizione, le ricorrenti deducono che vi sarebbero varie missive attestanti l'avvenuta interruzione della stessa.
La Suprema Corte ha ritenuto la domanda infondata nel merito essendo uno specifico obbligo della banca, scaturente dalla disciplina del contratto bancario, quello di permettere al singolo cointestatario, anche dopo la morte dell'altro titolare del rapporto, di poter pienamente disporre delle somme depositate, ferma restando la necessità di dover verificare la correttezza di tale attività nell'ambito dei rapporti interni tra colui che abbia prelevato e gli eredi del cointestatario deceduto.
Infine, sul versante dell'avvenuta prescrizione, la Corte ha ribadito la mancanza in atti di specifici documenti comprovanti l'avvenuta interruzione della stessa.
Le ricorrenti, specifica la Suprema Corte, si sono semplicemente limitate a richiamare, in maniera generica, l'esistenza di atti volti a far ricostruire l'asse ereditario, senza contrastare l'affermazione del Giudice del gravame secondo cui la sola richiesta di conoscere la situazione bancaria della de cuius non equivale a sollevare contestazioni circa la legittimità della condotta della banca e quindi a porre in essere un valido atto interruttivo.
Per tali ragioni la Corte di Cassazione, con l'ordinanza summenzionata, ha ritenuto il ricorso inammissibile.
L'INPS, con circolare n. 32 del 22 febbraio 2021, ha chiarito quali sono i requisiti richiesti dalla Legge di bilancio (Legge 178/2020, articolo 1, commi 16-19), al fine di favorire i rapporti di lavoro con donne disoccupate.
La Legge suindicata specifica che possono accedere al beneficio tutti i datori di lavoro privati, anche non imprenditori.
Il campo di applicazione del vantaggio riguarda l'assunzione di donne:
1) prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi, residenti in aree svantaggiate e con una professione caratterizzata da un'accentuata disparità occupazionale di genere;
2) prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi, ovunque residenti.
L'incentivo in esame, inoltre, spetta per:
1) le assunzioni a tempo determinato o indeterminato;
2) le trasformazioni a tempo indeterminato di un precedente rapporto agevolato.
Il beneficio è riconosciuto, infine, anche in caso di lavoro part-time e per i rapporti di lavoro subordinato instaurati con una cooperativa di lavoro.
Restano escluse le assunzioni con contratto di lavoro intermittente, occasionale e domestico.
Ai fini della durata del periodo agevolato, la norma summenzionata prevede che:
1) in caso di assunzione a tempo determinato, l'incentivo è attribuito per 12 mesi;
2) in caso di assunzione a tempo indeterminato, l'incentivo è attribuito per 18 mesi;
3) in caso di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a termine già agevolato, l'incentivo è riconosciuto per 18 mesi complessivi, a decorrere dalla data di assunzione.
E' inoltre necessario che le assunzioni comportino un incremento occupazionale netto, calcolato sulla base della differenza tra il numero dei lavoratori occupati rilevato in ciascun mese e il numero dei lavoratori mediamente occupati nei 12 mesi precedenti.
Questo quanto indicato dalla Legge di Bilancio summenzionata al fine di agevolare l'assunzione delle donne.
Il presente focus ha l'obiettivo di analizzare quanto statuto dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 2154 del 29 gennaio 2021, nell'ambito di una vertenza in materia di locazione.
Nel caso di specie, un locatore intimava sfratto per morosità innanzi al Tribunale di Frosinone nei confronti del conduttore di immobile locato ad uso commerciale per il mancato pagamento, da parte di quest'ultimo, dei canoni di locazione.
Il conduttore si costituiva in giudizio eccependo di aver legittimamente sospeso il pagamento dei canoni di locazione, ai sensi dell'articolo 1460 c.c., essendo risultato l'immobile locato inidoneo allo svolgimento di attività commerciale poiché sprovvisto della certificazione d'uso e di agibilità.
Per la mancanza di tali certificazioni, il Comune aveva infatti contestato al conduttore l'esercizio dell'attività nella parte retrostante del locale.
Pertanto, il convenuto eccepiva di non aver potuto utilizzare tutte le parti dell'immobile, subendo così gravissimi danni per la sua attività d'impresa.
Per tale ragione il conduttore chiedeva la risoluzione del contratto per inadempimento del locatore, domanda accolta dal Tribunale di Frosinone.
Avverso tale pronuncia, il locatore proponeva ricorso innanzi alla Corte d'Appello di Roma, la quale ribaltava la sentenza di primo grado, dichiarando il contratto di locazione risolto per inadempimento del conduttore che veniva condannato al pagamento dei canoni insoluti.
Il conduttore proponeva dunque ricorso in Cassazione eccependo come il Giudice del gravame avesse posto a base della decisione fatti e circostanze non risultanti dagli atti, assumendo che il difetto di agibilità e di destinazione d'uso del locale non impediva l'uso dell'immobile.
Ad avviso del ricorrente, la Corte d'Appello avrebbe dovuto analizzare il contenuto del contratto di locazione, interpretarlo ed individuare quali fossero gli interessi dedotti dalle parti.
La Suprema Corte ha premesso che, pur risultando indimostrato il conseguimento della destinazione d'uso e dell'agibilità dell'immobile, l'utilizzo del medesimo da parte del conduttore rendeva ingiustificato l'inadempimento dell'obbligo sullo stesso gravante di corrispondere il canone.
Tuttavia, ha rilevato che, in coerenza con il generale criterio di riparto dell'onere probatorio in tema di responsabilità da inadempimento delle obbligazioni contrattuali (C. Cass. SS.UU n. 13533/2001), a fronte dell'eccezione di inadempimento opposta dal conduttore, spettava al locatore dimostrare di avere correttamente e pienamente adempiuto all'obbligo di rendere l'immobile locato pienamente idoneo all'uso pattuito.
Con riferimento poi alle condizioni che legittimano il conduttore a sospendere, in tutto o in parte, il pagamento del canone, deve infatti ormai ritenersi abbandonato, nella più recente giurisprudenza (C. Cass. Sent. n. 20322/2019; C. Cass. Sent. n. 16917/2019; C. Cass. Sent. n. 16918/2019; C. Cass. Sent. n. 22039/2017), l'orientamento più rigoroso che, con riferimento al rapporto locativo, ritiene legittima la sospensione, anche parziale, della prestazione gravante sul conduttore solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte (C. Cass. Sent. n. 13133/2006; C. Cass. Sent. n. 7772/2004).
Tale orientamento, sostiene la Suprema Corte, non trova fondamento nell'articolo 1460 c.c., ma si rifà al principio di correttezza e buona fede oggettiva, ex artt. 1175 e 1375 c.c., in applicazione del quale la Corte di Cassazione, con l'ordinanza summenzionata, ha statuito che: “la condotta della parte inadempiente deve incidere sulla funzione economico – sociale del contratto, influire sull'equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all'interesse perseguito dalla parte e, perciò, deve legittimare casualmente e proporzionalmente la sospensione dell'adempimento dell'altra parte, in ottemperanza del principio di autotutela sancito dall'articolo 1460 c.c.”
Applicando il principio di correttezza e buona fede, le parti avrebbero dunque dovuto comportarsi reciprocamente con lealtà ed onestà nell'adempimento delle proprie obbligazioni contrattuali, onestà invece venuta meno da parte del locatore, avendo egli concesso in locazione un immobile privo delle certificazioni necessarie per l'utilizzo dello stesso.
Detto inadempimento ha inevitabilmente influito sull'equilibrio contrattuale, essendosi trovato il conduttore a godere di un immobile inutilizzabile per lo svolgimento della propria attività commerciale.
Per tale ragione, la sospensione del pagamento dei canoni ad opera del ricorrente è stata ritenuta legittima sulla scorta di quanto statuito dall'articolo 1460 c.c.: “Ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria. Non può rifiutarsi l'esecuzione se il rifiuto è contrario alla buona fede.”
Pertanto la Corte di Cassazione ha accolto, con l'ordinanza suindicata, il ricorso proposto dal conduttore.