Con il termine mobbing si intende l’insieme di reiterati comportamenti datoriali consistenti in una serie di atti aventi finalità meramente vessatorie del dipendente con lo scopo di emarginare quest’ultimo e di costringerlo a presentare le dimissioni.
Si sente parlare molto spesso di mobbing aziendale, tuttavia non tutti conoscono la figura ad esso affine che ha ricevuto parimenti pieno riconoscimento in sede giurisprudenziale.
Trattasi del c.d. straining che altro non è se non una forma attenuata di mobbing, differenziandosi da quest’ultimo per l’elemento dell’assenza della continuità delle azioni vessatorie.
Più nel dettaglio, il mobbing consiste in una condotta sistematica e protratta nel tempo da parte del datore di lavoro e/o superiore gerarchico (c.d. mobbing verticale) o di colleghi (c.d. mobbing orizzontale), tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro. Contegno che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, dalle quali può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibro psico-fisico e del complesso della sua personalità.
E’ invece configurabile la forma attenuta di straining quando si ravvisino comportamenti c.d. stressogeni scientemente attuati nei confronti del lavoratore, pur difettando la pluralità delle azioni vessatorie o se esse siano limitate nel numero (frequenza isolata).
Si deve trattare in buona sostanza di una condotta lesiva della dignità professionale e umana del lavoratore, dignità da intendersi sotto l’aspetto morale, psicologico, fisico o sessuale.
I presupposti integranti i suesposti istituti sono i seguenti:
- Molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio che siano posti in essere in moto miratamente sistematico e prolungato nel tempo (nel caso invece dello straining è sufficiente anche solo un singolo atto con efficienza causale).
- L’evento lesivo della salute e della personalità del dipendente.
- Il nesso eziologico tra la condotta del datore ed il pregiudizio all’integrità psico-fisica.
- La prova dell’elemento soggettivo: l’intento persecutorio.
In ambo i casi, ricorrendo i suesposti presupposti, le predette ipotesi si innestano nell’alveo applicativo dell’art. 2087 c.c., quale norma di riferimento rispetto alle responsabilità datoriali per danni alla persona, secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La succitata norma, come affermato dall’unanime giurisprudenza, oltre da intendersi come disposizione di chiusura del sistema antiinfortunistico, è suscettibile di interpretazione estensiva, ricomprendendo tutte quelle condotte datoriali poste in essere in spregio ai canoni di correttezza e buona fede nonché lesive di diritti costituzionalmente rilevanti, qual è il diritto alla salute (art. 32 Cost).
Il datore di lavoro ha l’obbligo di astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali di rilievo costituzionale (salute) del dipendente mediante l’adozione di condizione lavorative “stressogene” e/o di comportamenti scientemente vessatori. Parimenti è tenuto a predisporre un ambiente ed un’organizzazione del lavoro idonei a preservare il bene fondamentale della salute.
L’inosservanza di tale obbligo di tutela della salute e dell’integrità dei lavoratori costituisce fonte di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. ed extracontrattuale ex art. 2043 e ss c.c. con conseguente obbligo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. Azioni, quest’ultime, esperibili anche in concorso.
Riferimenti normativi:
Art. 32 Cost.
Art. 2087 c.c.;
Art. 9 Statuto dei Lavoratori.
Riferimenti giurisprudenziali:
Ex multis Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. 04.06.2019, n. 15159; Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. 21.05.2019, n. 13644; Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. 27.11.2018, n. 30673; Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. 19.02.2018, n. 3977; Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. 10.07.2018, n. 18164.