I messaggi whatsapp e gli sms conservati nella memoria di un cellulare sono considerati documenti ai sensi dell'art. 234 c.p.p.
I testi delle conversazioni e dei messaggi possono essere legittimamente acquisiti ed utilizzabili ai fini del giudizio se ottenuti mediante riproduzione fotografica a cura degli inquirenti. L'acquisizione di tali testi non soggiace alle regole applicate per la corrispondenza e per le intercettazioni telefoniche.
Il caso che oggi si vuole sottoporre all'attenzione dei lettori è quello di un soggetto condannato in secondo grado dalla Corte d'Appello di Roma, per aver detenuto illecitamente e ceduto a terzi delle sostanze stupefacenti.
Il condannato ricorre in Cassazione e con il primo motivo di impugnazione di natura meramente processuale, eccepisce la nullità ed inutilizzabilità degli esiti delle comunicazioni telematiche registrate sulla memoria del telefono cellulare, acquisite all'esito dell'ispezione compiuta dalla polizia giudiziaria mediante la riproduzione fotografica della schermata delle comunicazioni intercorse tra l'imputato ed un potenziale acquirente.
La Suprema corte, con sentenza n. 1822/2020, rigettando il ricorso proposto dall'imputato, ha affermato che: “i messaggi whatsapp così come gli sms conservati nella memoria di un apparecchio cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell'art. 234 c.p.p. Di tal che la relativa attività acquisitiva non soggiace alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche, con l'ulteriore conseguenza che detti testi devono ritenersi legittimamente acquisiti ed utilizzabili ai fini della decisione ove ottenuti mediante riproduzione fotografica a cura degli inquirenti”.
Gli sms, le conversazioni whatsapp, i messaggi di posta elettronica “scartati” e/o conservati nella memoria dell'apparecchio cellulare possono essere, dunque, legittimamente acquisiti in giudizio con una qualunque modalità atta alla raccolta del dato, inclusa la riproduzione fotografica.
Gli Ermellini hanno anche evidenziato che non è applicabile la disciplina dettata dall'art. 254 c.p.p., in quanto tali testi non rientrano nel concetto di “corrispondenza”, in quanto quest'ultima implica un'attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito”.
Di tali principi di diritto, da un lato, aveva fatto corretta applicazione la corte territoriale che,nel respingere la censura mossa in apppello dal ricorrente, aveva utilizzato i messaggi contenuti nei telefoni cellulari degli imputati, ai fini della decisione.
Dall'altro lato non poteva ritenersi che si trattasse degli esiti di un'attività di intercettazione, la quale postula, per sua natura, la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, là invece, dove i dati presenti sulla memoria del telefono acquisiti ex post costituiscono mera documentazione di detti flussi.
Il provvedimento ora analizzato, invece, confermando la natura di prova nel processo penale nelle delle chat whatsapp, porta ad affermare che i relativi testi possono essere ritenuti legittimamente acquisiti ed utilizzabili ai fini della decisione, se ottenuti mediante riproduzione fotografica a cura degli inquirenti, con il cosiddetto screenshot.
“Tra i diritti che competono al consumatore, nel caso di difetto di conformità, sebbene il comma 2 dell'art. 130 Cod. Consumo non annoveri il diritto al risarcimento del danno cagionato dall'inadempimento, ciò non significa che il consumatore che abbia ricevuto un bene non conforme al contratto non possa esercitare, nei confronti del professionista, delle pretese risarcitorie: il diritto al risarcimento del danno rientra, infatti, fra i “diritti” attributi al consumatore da “altre norme dell'ordinamento giuridico” italiano.”
Detto principio, oggetto dell'odierna rassegna, è stato statuito dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 1082 del 20 gennaio 2020.
Il caso di specie si fonda sull'acquisto, da parte dell'attore - consumatore, di una partita di larice, poi rivelatasi difettosa a causa di un anomalo restringimento derivante dalla perdita di umidità delle perline dopo la posa.
L'attore, dunque, chiedeva al Tribunale di Mondovì la condanna in via principale del convenuto volta all'eliminazione dei vizi già riscontrati in sede di accertamento tecnico preventivo; in via subordinata, il risarcimento di tutti i danni subiti in conseguenza dei vizi del materiale fornito.
Il Tribunale di Mondovì rigettava la domanda principale, ritenendo eccessivamente oneroso per il venditore l'intervento di ripristino, e accoglieva la domanda subordinata di risarcimento del danno.
In ragione di ciò, il convenuto proponeva appello che veniva accolto dalla Corte d'Appello di Torino, la quale, ritenendo il danno conseguente al vizio del materiale di rilevanza esclusivamente estetica, ha considerato non necessario garantirne il risarcimento.
L'attore, dunque, proponeva ricorso per Cassazione.
La Corte chiariva, in primo luogo, come l'eccessiva onerosità della sostituzione per il venditore non poteva essere assunto quale limite ai diritti che competono al compratore in dipendenza del vizio.
In secondo luogo, secondo i Giudici di legittimità, nel caso in cui il bene consegnato al consumatore presenti un difetto di conformità del quale la ditta fornitrice debba rispondere, il consumatore può far valere nei confronti della ditta inadempiente i rimedi contemplati dell'art. 130, comma 2, del codice del consumo, il quale statuisce che: “In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero a una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto.”
Tuttavia, tra i diritti che competono al consumatore, “nel caso di difetto di conformità”, l'art. 130 del codice del consumo, al comma 2, non annovera il diritto al risarcimento del danno cagionato dall'inadempimento.
Ciò non significa, però, che il consumatore che abbia ricevuto un bene non conforme al contratto non possa esercitare, nei confronti della ditta fornitrice, delle pretese risarcitorie; il diritto al risarcimento del danno rientra senz'altro fra i “diritti” attribuiti al consumatore da “altre norme dell'ordinamento giuridico italiano”, come disposto dal comma 1, dell'art. 135 del codice del consumo: “Le disposizioni del presente capo non escludono né limitano i diritti che sono attribuiti al consumatore da altre norme dell'ordinamento giuridico.”
Tra le norme dell'ordinamento giuridico italiano che riconoscono il diritto al risarcimento del danno, possiamo annoverare a titolo esemplificativo l'articolo 1494 del codice civile, il quale, in materia di contratto di vendita, statuisce che: “In ogni caso il venditore è tenuto verso il compratore al risarcimento del danno, se non prova di aver ignorato senza colpa i vizi della cosa. Il venditore deve altresì risarcire al compratore i danni derivanti dai vizi della cosa.”
La norma in commento, dunque, riconosce espressamente in capo al venditore l'obbligo di risarcire i danni al compratore, quando il bene oggetto di vendita sia affetto da vizi, ipotesi che risulta applicabile al caso di specie.
Inoltre, secondo la corrente opinione dottrinaria, condivisa dalla giurisprudenza, il risarcimento del danno ha lo scopo di porre il compratore in una posizione economicamente equivalente non a quella in cui si sarebbe trovato se non avesse concluso il contratto o se l'avesse concluso a un prezzo inferiore, ma a quello in cui si sarebbe trovato se la cosa fosse stata immune da vizi.
La circostanza che un determinato prodotto si riveli inidoneo ad essere adoperato secondo le modalità indicate dal venditore e possa esserlo solo con modalità più dispendiose, ben può essere valutata dal Giudice di merito ai fini del risarcimento del danno, oltrechè sotto l'aspetto della riduzione del prezzo poiché quest'ultima ristabilisce l'equilibrio patrimoniale solo con riguardo al valore della cosa venduta ma non elimina il danno determinato dal venditore, consistente nel costo delle maggiori quantità di prodotto utilizzato e di manodopera impiegata (C. Cass. Sent. n. 4161/2015).
La corte di merito non si è, quindi, attenuta a quanto statuito dalla giurisprudenza sopra menzionata: ha riconosciuto l'esistenza del vizio, ma ha anche ritenuto la riparazione o sostituzione eccessivamente onerosa; non ha, dunque, riconosciuto all'attore l'integrale risarcimento del danno subito.
Ciò posto, in ragione dell'impugnazione proposta da parte attrice, con Sentenza n. 1082/2020, menzionata all'inizio della rassegna stampa odierna, i Giudici di legittimità cassavano con rinvio alla Corte d'Appello di Torino, la quale, dovendosi attenere ai principi sopra menzionati, sarà obbligata a riformulare la sentenza sopra emessa, andando ad esplicitare che “il diritto al risarcimento del danno rientra, infatti, fra i “diritti” attribuiti al consumatore da “altre norme dell'ordinamento giuridico” italiano”.
Con l'odierna rassegna si vuole fare presente al lettore come la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 33133 del 16 dicembre 2019, ha statuito che: “la categoria dei dispositivi di protezione individuale, costituita dai prodotti o indumenti che hanno la funzione di salvaguardare la persona che li indossi o li porti con sé contro uno o più rischi presenti nell'attività lavorativa, deve essere definita avendo riguardo alla “concreta finalizzazione” delle attrezzature, degli indumenti, dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai rischi per la salute e la sicurezza, tenuto conto della effettiva attività compiuta.
Ne discende l'irrilevanza del mancato inserimento dello specifico dispositivo di sicurezza tra quelli individuati dalla contrattazione collettiva o dal Documento Valutazione Rischi nonché dalla circostanza che l'attrezzatura non sia appositamente creata e commercializzata per la protezione di specifici rischi per la salute in base a caratteristiche tecniche certificate.
Il datore di lavoro è dunque gravato dall'obbligo di provvedere al lavaggio e alla manutenzione dei dispositivi di protezione individuale”.
Nel caso di specie, dunque, la Corte di Cassazione non condivide l'interpretazione fornita dalla Corte d'Appello di Cagliari con sentenza n. 419/2016; in detta pronuncia, argomentando sulla definizione di dispositivi di protezione individuale fornita dall'art. 40, D.lgs. n. 626/1994 (sostituito poi dall'art. 74, D.lgs. n. 81/2008) secondo cui “si intende per dispositivo di protezione individuale qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento od accessorio destinato a tale scopo”, aveva rigettato la domanda di risarcimento danni avanzata da alcuni operatori ecologici che si erano occupati di provvedere in proprio al lavaggio degli indumenti di lavoro.
La Cassazione ritiene, quindi, che l'interpretazione nella specie fornita dalla Corte di merito al citato art. 40, si concentri solo su quelle che devono essere le caratteristiche tecniche di realizzazione e di commercializzazione delle attrezzature e degli indumenti del lavoratore, non tenendo invece adeguatamente conto della finalità principale dello stesso articolo, consistente nel voler tutelare la salute quale diritto fondamentale.
L'espressione adoperata dall'art. 40 cit., che fa riferimento a “qualsiasi attrezzatura” nonché ad “ogni complemento o accessorio” destinati al fine di proteggere il lavoratore “contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro”, deve essere intesa, dunque, nella più ampia accezione proprio in funzione della connessione teleologica a tutela del bene primario della salute quale diritto fondamentale riconosciuto dall'art. 32 Cost.
Inoltre, la Corte ritiene come non sia rilevante la circostanza della previsione o meno degli specifici dispositivi di protezione individuale nell'ambito del Documento di Valutazione dei Rischi, come invece sostenuto dalla Corte territoriale, in quanto l'obbligo posto dal D.lgs. n. 626/1994 all'art. 4, comma 5, di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia specificatamente contemplato nel Documento di Valutazione dei Rischi, redatto dal medesimo datore di lavoro.
Ciò posto, è bene sottolineare come in passato fosse già stato specificato da questa Corte cosa si intendesse per “indumenti di lavoro specifici”: “si debbono intendere le divise o gli abiti aventi la funzione di tutelare l'integrità fisica del lavoratore, nonché quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari funzioni, volti ad eliminare o a quanto meno ridurre i rischi ad esse connessi, oppure a migliorare le condizioni igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue incombenze, onde scongiurare il rischio potenziale di contrarre malattie, come appunto deve reputarsi per la divisa dell'operatore ecologico” (C. Cass. Sent. n. 11071/2008; C. Cass. Sent. n. 23314/2010).
Infine, questa Corte aveva già precedentemente precisato come: “l'idoneità degli strumenti di protezione deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l'intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell'obbligo previsto dal D.lgs. n. 626/1994” (C. Cass. Sent. n. 11729/2009; C. Cass. Sent. n. 16495/2014; C. Cass. Sent. n. 8585/2015).
Nel caso di specie, dunque, la Suprema Corte, anche conformandosi alle pronunce sopra citate, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Cagliari che dovrà riesaminare la fattispecie attenendosi ai principi sopra enunciati.
“Il titolare di un rapporto di conto corrente ha sempre diritto di ottenere dalla banca il rendiconto, ai sensi del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 119, anche in sede giudiziaria e attraverso qualunque mezzo si mostri idoneo allo scopo, compreso l’ordine di esibizione, fornendo la sola prova dell’esistenza del rapporto contrattuale”.
Trattasi dell’innovativo principio di diritto sancito dalla Corte di Cassazione, con la recente Sentenza n. 31650 del 04.12.2019.
Leggi tutto...